Il secondo dopoguerra
La ricostruzione, Le commissioni interne, gli scioperi e le agitazioni operaie
Montecatini di Piano d’Orta nel secondo dopoguerra
Le pesanti distruzioni subite dallo stabilimento e dalle reti infrastrutturali accompagnate dall’instabilità politica ed economica che seguirono dopo l’8 Settembre 1945, resero ancor più difficili gli interventi di ristrutturazione e di nuova messa in opera della realtà industriale di Piano d’Orta.
Inoltre, venne a mancare l’Ing. Donegani, figura lucida e lungimirante che aveva contribuito a rendere la Montecatini una realtà di livello internazionale. Tra il 1944 e il 1945, per due volte venne arrestato e rilasciato prima dall’esercito tedesco e poi da quello inglese. In seguito fu accusato di sostegno al regime fascista e costretto a trascorrere l’ultimo anno della sua vita in clandestinità prima di morire in stato di forte deperimento fisico e psichico nell’Aprile del 1947.
Per circa un anno dopo la liberazione, la società venne commissariata dal CLN a Dandolo Francesco Rebua, già direttore generale della Montecatini. Il 27 Marzo 1946, si insediò il primo consiglio di amministrazione con presidente il senatore liberale Mario Abate, Giacomo Fauser e Carlo Faina (ex collaboratori del Donegani) rispettivamente vicepresidente ed amministratore delegato ed il socialista Luigi Morandi (fratello del Ministro dell’Industria) anch’esso amministratore delegato.
Sempre nel Marzo del 1946, il Morandi afferma di fronte alla Commissione Economica della Costituente che “la Società deve impegnarsi nel Mezzogiorno, deve collaborare con il piano di ricostruzione economica del paese, deve elevare i salari aziendali”.
Per evidenziare la ingenti difficoltà interposte al raggiungimento di tali obbiettivi basta citare un rapporto stilato appena 8 mesi prima dalla Direzione Generale della Montecatini in cui si legge che per assicurare una normale attività produttiva di dodici mesi (oltre agli interventi di ristrutturazione) occorrevano i seguenti quantitativi di materie prime e prodotti: “[…] 12.500 tonnellate di piriti dalle miniere di Scarlino, 22.000 tonnellate di fosfati minerali, 160 tonnellate di cloruro di sodio, 1.250 tonnellate di rame in pani, 1.860 tonnellate di idrato di allumina, 190 tonnellate di acido nitrico, 350 tonnellate di carbon coke e carboni vari. Inoltre erano necessari macchinari vari, motori elettrici, pompe per acido ed acqua, ventilatori, insaccatrici, materiali per il montaggio e per l’edilizia, pezzi per ricostruire le Torri di Gay Lussac, anelli grès per le Torri Glover e di Gay Lussac, materiali per la riparazione dei binari ferroviari.”
Nonostante queste notevoli difficoltà, nel Novembre del 1947, la fabbrica di Piano d’Orta era stata ricostruita quasi del tutto e fu pronta per riavviare alcuni cicli produttivi.
L’ultima lettera di Guido Donegani
Nel 1946 in una lettera di commiato, l’Ing. Guido Donegani poneva la seguente domanda:
“[…] Che cos’era la società nel lontano 1910, quando giovane d’anni e d’energia ne assunsi la direzione? Che cos’è e come l’ho lasciata di recente, dopo averle dedicato le energie di tutta la mia vita?” A tale interrogativo rispose: “[…] Nel 1910 la società era un piccolo organismo fornito di un capitale di appena due milioni di lire con poche miniere di piombo e di rame in via di esaurimento in Maremma e qualche centinaio di dipendenti. Oggi è un grande organismo con due miliardi di capitale di lire anteguerra con oltre 50 mila tra tecnici ed operai, con molte decine di stabilimenti in tutta Italia: la prima fra le società italiane nel campo minerario ed in quello chimico, tanto per i prodotti agricoli quanto per i prodotti chimici industriali”.
Le Commissioni Interne, gli scioperi e le agitazioni operaie
Nonostante il malcontento delle masse, molto numerose, di disoccupati presenti nell’alta Val Pescara, malessere che in alcuni casi sfociò in veri atti di forza, la di fabbrica di Piano d’Orta si distinse in quel difficile momento per la volontà di effettuare scelte senza dubbio convenienti e vantaggiose ai fini del ripristino dell’attività produttiva, ma anche volte a contenere la dilagante disoccupazione. Infatti, stando alle dichiarazioni di Carafatti, lo stabilimento di Piano d’Orta fu l’unico dell’Italia centro-meridionale, ed uno dei pochi nell’intera penisola, a mantenere fino al febbraio 1947 l’orario lavorativo di 48 ore settimanali, senza effettuare licenziamenti, anzi assumendo nuovo personale, sebbene provvisorio. Ricordiamo che il decreto prefettizio 20 maggio 1946, n. 2082, allo scopo di ridurre il livello di disoccupazione, stabiliva la riduzione dell’orario di lavoro da 48 a 40 ore, nonché l’assunzione da parte delle aziende di disoccupati nella misura di 1/6 della manodopera occupata.
Tuttavia, considerato che la Direzione di Piano d’Orta aveva impiegato disoccupati in misura maggiore di quella compatibile con le esigenze della produzione e che nello stesso tempo la riduzione dell’orario avrebbe pregiudicato i lavori di ricostruzione dello stabilimento, fu concessa allo stabilimento pianodortese la facoltà di ridurre la settimana lavorativa a 40 ore, senza ulteriore impegno di assunzione di unità lavorative.
L’adozione dell’orario ridotto, però, mal si conciliò con la forte esuberanza di personale e con l’esigenza di bloccare la disoccupazione in quanto tale scelta avrebbe impedito nuove assunzioni. A questo si aggiunse il fatto che lo stabilimento dovette forzatamente riassorbire un gruppo di reduci di guerra.
l quadro generale peggiorò con l’emanazione del D. leg. 12 Agosto 1947, n° 869 con il quale si abrogò il blocco dei licenziamenti. Il provvedimento era stato emanato anche in considerazione delle disposizioni del D. leg. 12 agosto 1947, n° 170 con il quale si disponeva l’aumento degli assegni integrativi dell’indennità di disoccupazione, nonché dei sussidi straordinari di disoccupazione (quest’ultima indennità fu elevata a 200 lire per l’avente diritto e a 32 lire per ciascun figlio a carico, per ogni giornata di corresponsione degli stessi sussidi).
La protesta degli operai esplose quando il decreto venne applicato, cioè nell’estate 1948, interessando l’intero sistema industriale della Val Pescara. Gli epicentri della lotta furono in particolare il polo minerario di Manoppello-Scafa e quello elettrochimico di Bussi-Piano d’Orta. Negli stabilimenti della Sama di Manoppello gli scioperi iniziarono nel Novembre 1948 e durarono fino a Gennaio dell’anno successivo. Nell’ottobre 1948 si era tenuta un’assemblea generale nella quale furono discusse ed elaborate le seguenti proposte: aumento dell’indennità di contingenza, “riclassificazione dell’incasellamento della zona della fabbrica in modo da annullare una storica ingiustizia perpetrata ai danni di quel complesso industriale” (si faceva riferimento alla contingenza il cui importo era proporzionale alla ripartizione territoriale dell’Italia), ripristino della settimana lavorativa di 48 ore. Tali proposte vennero formalizzate dalla Commissione Interna il 9 dicembre 1948 e furono esaminate dall’azienda in una riunione tenutasi a Roma il 7 gennaio 1949. Di fronte al rifiuto dell’azienda, la Commissione Interna chiese “la creazione di una nuova indennità, oppure la concessione di 200 lire giornaliere a qualsiasi titolo”. Il 10 gennaio anche gli impiegati degli stabilimenti di Bussi aderirono alla vertenza e lo stesso giorno operai ed impiegati furono diffidati dalla direzione dell’azienda. In un documento ufficiale inviato alla Camera del Lavoro di Pescara, essi minacciavano di chiudere gli stabilimenti «fino alla risoluzione della controversia.
Il 19 febbraio 1949, gli operai scioperarono per quattro ore, il 25 per l’intera giornata: la fabbrica fu chiusa dall’azienda. Le maestranze chiesero il pagamento delle giornate di chiusura, l’8 marzo occuparono lo stabilimento: il prefetto di Pescara intimò loro di evacuare la fabbrica “entro le ore 16:30 senza di che si sarebbe provveduto all’impiego della Forza Pubblica”. Lo sgombero non avvenne, sicché la fabbrica fu evacuata dalla polizia senza alcun incidente e alle 20:30 del 9 marzo quando si arrivò ad un accordo.
Nella relazione del 31 marzo 1949, l’Aip affermò che la decisione si rese necessaria per evitare l’entrata in sciopero del gruppo Montecatini che minacciava di mettersi in agitazione per solidarietà il giorno successivo, mentre quello Nobel era già in sciopero da 4 ore. Ecco i punti salienti dell’accordo siglato il 9 marzo presso la sede dell’Aip. Per i dieci giorni di chiusura della fabbrica (dal 26 febbraio al 9 marzo) fu stabilito di recuperare “cinque giornate da parte degli operai con modalità stabilite dall’azienda, due giornate furono calcolate in conto ferie, 2000 lire furono corrisposte dall’azienda a titolo di prestito recuperabile in un periodo di tempo a discrezione della Società”. Tutto sommato, si trattò di una soluzione abbastanza vantaggiosa per la Montecatini che riuscì con forme di concessioni e di recuperi a centrare l’obiettivo di non pagare le dieci giornate di chiusura. Ma la stessa società fu obbligata ad accettare buona parte delle proposte avanzate dalla Commissione Interna nella riunione del 7 Gennaio 1949.